Vol. 13 No. 17 (2020): Alla ricerca del Continuum: Quaroni a Yazd | In Search for the Continuum: Quaroni in Yazd
Il brillio del Mediterraneo. Tornando da Tehran quella volta avevamo deciso di prendere un volo della Pan Am che ci permetteva, senza pagare una lira in più, di sostare per due giorni interi a Istanbul prima di ripartire per Roma. Il tempo sulla Turchia anatolica doveva essere davvero bruttissimo se il Jumbo, appena partito da Tehran, era stato diretto verso il Mediterraneo, che aveva raggiunto, dopo un’ora di volo, in un tratto della costa tra Antiochia e Laodicea, tra Turchia e Siria. Quando fummo avvertiti della deviazione, Quaroni aveva voluto cambiar posto e andò a sedersi accanto a un finestrino. Il grande aereo Pan Am non era certo pieno. Eravamo fuori stagione. Noi stessi stavamo godendo di un’offerta turistica da “bassa stagione”. L’hostess ci portò, non richiesta, una bottiglia di vino Shiraz, persiano, e due calici di bel vetro; il capitano dell’aereo iniziò a informarci, di tanto in tanto, sulla rotta, forse per farsi perdonare la deviazione che allungava di non poco i tempi del volo. La città di Antiochia sulla destra, ci avvertì. Ma troppo tardi. Riuscimmo però a intravedere Cipro – sì Cipro – sulla sinistra. Ludovico – così mi disse – sperava di vedere le isole e la costa frastagliata dopo Rodi; “bellissime le isole, ancora più bella la costa” affermò. Egli era della generazione per la quale quel gruppo di isole sparse tra Creta, le Cicladi e Samo – il Dodecanneso – per trent’anni era stato un bene italiano, particolarmente caro ad alcuni tra gli architetti che erano stati suoi maestri in facoltà, storici e progettisti. Rimase fisso al finestrino mentre i nomi annunciati dal capitano – Antiochia,
Laodicea, Cipro – e il primo bicchiere di Shiraz accendevano la nostra conversazione. Venivamo dalla Persia, ci eravamo incontrati a Isfahan prima di giungere a Tehran; ora volavamo sul mare greco, sulle sue antiche città, sull’isola di Afrodite – di Afrodite... vale un brindisi, Ludovico! – ed eravamo diretti a Costantinopoli per terminare il viaggio a Roma. Stavamo attraversando per intero lo spazio del mondo antico, quello spazio dove, in quel periodo, per puro caso ci incontravamo di tanto in tanto mentre ci spostavamo, ognuno secondo il proprio lavoro, tra le sue città più fatali e più belle. Il pensiero di quel mondo era decollato assieme a noi; con noi era sempre. Di quel mondo eravamo abituati a ragionare tra noi ogni volta che ci capitava di passare una sera da soli o con i nostri raffinati ospiti iraniani, passeggiando senza meta lungo i viali di platani monumentali di Tehran o sedendo nel giardino di un vecchio albergo di campagna a gustare vodka iraniana sotto il cielo luminosissimo delle notti del Fars, ai margini del deserto. Anche se non ci eravamo incontrati per molti mesi, il nostro discorso riprendeva come mai interrotto. “Ecco” mi disse Ludovico in una di quelle serate, dopo una pausa di silenzio: “quando mia moglie Gabriella mi chiede di cosa parliamo tanto a lungo tu ed io quando ci incontriamo qui in Persia, io rispondo: conversiamo... comparando... le morte stagioni e la presente e viva e il suon di lei”. E ridacchiava dentro la sua barba all’uso irriverente delle parole del grande Giacomo. Ma era vero. In quelle conversazioni ondeggianti tra il tempo antico e il tempo nostro, tra la storia e quell’istante della nostra vita che ci vedeva gettati nel cuore di un altro tempo, soltanto i nostri indumenti ci rammentavano che venivamo da un futuro che in cuor nostro non auguravamo a quei luoghi. E discorrevamo tra noi e con i nostri amici persiani come viaggiatori senza tempo, comparando davvero le città delle nostre tante modernità, morte o declinanti, all’antichità presente e viva della Persia attuale. Fu in queste conversazioni che compresi quanto in Ludovico la visione della città futura fosse legata alla trasfigurazione della città antica come se per disegnare finalmente un mondo nuovo degno del grande passato della nostra storia occorresse cancellare e dimenticare tutti i modelli di modernità tentati in Occidente e sempre universalmente imposti, sovrapponendoli l’uno a l’altro, in tutta la loro monumentale, meccanica arcaicità; in tutti i loro fallimenti. In lui era sempre presente la formazione culturale di una generazione italiana che non aveva potuto fare a meno di confrontarsi – anche solo per confutarlo – con il Futurismo originario, quello di Marinetti l’Egiziano, che cercava energia vitale nella tecnologia e nella forza nativa – persino belluina – del passato: per distruggere l’Occidente.